Titolo: Winterreise (Viaggio d’inverno)
Autore: Alaide
Bera-reader: /
Tipologia: Long-fiction
Rating: Per tutti
Genere: Introspettivo, Drammatico
Personaggi: Severus Piton, Harry Potter, Hermione Granger, Ygraine Ainsworth (Personaggio Originale)
Pairing: Severus/Ygraine
Epoca: (solo per le fic di HP) – post settimo libro
Avvertimenti: nessuno
Riassunto:
Era stato certo di essere arrivato alla fine e si era preparato a non esistere più – o ad esistere in un altro luogo, ammesso che questo esistesse –, ad esalare il suo ultimo respiro, a veder giungere a compimento il suo viaggio solitario.
Invece la vita - la sua buona sorte avrebbe potuto dire qualche sprovveduto – aveva avuto un’idea diversa.
Ed ora viveva.Disclaimer: I personaggi ed i luoghi presenti in questa storia non appartengono a me bensì, prevalentemente, a J.K. Rowling e a chi ne detiene i diritti. La trama di questa storia é invece di mia proprietà ed occorre il mio esplicito e preventivo consenso per pubblicare/tradurre altrove questa storia o una citazione da essa.
Questa storia non è stata scritta a scopo di lucro, ma per puro divertimento, nessuna violazione del copyright è pertanto intesa.
Nota: La storia trae spunto da un ciclo di Lieder (si tratta di un genere musicale diffuso nelle nazioni di lingua tedesca soprattutto nel XIX secolo, dove una poesia o un ciclo di poesie come in questo caso, sono musicate da un compositore. Si tratta di composizione generalmente previste per pianoforte e voce) di Franz Schubert su testo di Wilhelm Müller, intitolato Winterreise (1827), composto da 24 poesie. Ogni capitolo porterà il titolo della poesia in questione ed una citazione – integrale o frammentaria (nel qual caso sarà indicato in nota quali versi ho preso in considerazione) della poesia. Il testo sarà fornito in tedesco con traduzione ad opera della sottoscritta, quindi si spera per lo meno comprensibile.
L’idea di legare Winterreise ad una storia che vedesse come protagonista Severus mi è venuta alla mente ascoltando dal vivo il suddetto ciclo di Lieder l’anno scorso, ma l’idea è stata messe in un angolino, fino a che non è comparsa questa sfida che, per me, ha un valore doppio perché è la prima volta che scrivo di Severus.
Un’ultima annotazione, poi taccio. Nel corso del racconto vi saranno diversi riferimenti operistici, dovuti alla professione di uno dei personaggi originali che è cantante d’opera. Ho tentato di inserire soltanto riferimenti che potessero aver interesse per la trama stessa. In alcuni casi darò un piccolo accenno di trama nelle note a piè pagina.
Indice:Capitolo I. Gute Nacht (Buonanotte)
Capitolo II. Die Wetterfahne (La banderuola)Capitolo III. Gefrorene Tränen (Lacrime di ghiaccio)Capitolo IV. Erstarrung (Congelamento)Capitolo V. Der Lindenbaum (Il Tiglio)Capitolo VI. Wasserflut (Flutti d'acqua)Capitolo VII. Aus dem flusse (Sul fiume)Capitolo VIII. Rückblick (Sguardo indietro)Capitolo IX. Irrlicht (Fuoco Fatuo)Capitolo X. Rast (Sosta)Capitolo XI. Frühlingstraum (Sogno di primavera)Capitolo XII. Einsamkeit (Solitudine)Capitolo XIII - parte I. Die Post (La posta)Capitolo XIII - parte II. Die Post (La posta)Capitolo XIV. Die greise Kopf (La testa bianca)Capitolo XV. Die Krähe (La cornacchia)Capitolo XVI. Die Leszte Hoffnung (Ultima speranza)Capitolo XVII. Im Dorfe (in paese)Capitolo XVIII. Der stürmische Morgen (La mattina tempestosa)Capitolo XIX. - parte I. Täuschung (Illusione)Capitolo XIX. - parte II. Täuschung (Illusione)Capitolo XX. - parte I. Der Wegweiser (Il segnale stradale)Capitolo XX. - parte II. Der Wegweiser (Il segnale stradale)Capitolo XX - parte III. Der Wegweiser (Il segnale stradale)Capitolo XX - parte IV. Der Wegweiser (il segnale stradale)Capitolo XXI - parte I. Das Wirtshaus (La locanda)Capitolo XXI - parte II. Das Wirsthaus (La locanda)Capitolo XXI - parte III. Das Wirsthaus (La locanda)Capitolo XXII - parte I. Mut (Coraggio)Capitolo XXII - parte II. Mut (Coraggio)Capitolo XXII - parte II. Mut (Coraggio)Capitolo XXIII. - Parte I. Die Nebensonnen (Gli altri soli)Capitolo XXIII - parte II. Die Nebesonnen (Gli altri soli)Capitolo XXIV. Der Leiermann (Il suonatore d'organetti)Epilogo.
Winterreise. Viaggio d’Inverno
Capitolo I
Gute NachtIch kann zu meiner Reisen
nicht wählen mit der Zeit,
muss selbst den Weg mir weisen
in dieser Dunkelheit.
(Io non posso del mio viaggio
scegliere il tempo,
devo io stesso trovarmi un sentiero
in questa oscurità.)[1]
Gran Bretagna, 27 novembre 2001
Pioveva.
La pioggia tintinnava incessantemente, trasportata dal vento impetuoso e gelido che proveniva dalla Manica. La gente si affrettava, ricurva per le intemperie, a raggiungere il luogo di lavoro o la propria abitazione.
Soltanto una figura rimaneva immobile di fronte alla scalinata che portava alla facciata classicheggiante della Tate Britain, lasciando che l’acqua ed il vento la colpissero, inzuppando il cappotto, mentre le gocce colavano dal solido ombrello scuro. La mano sottile e delicata che reggeva il manico dell’ombrello era anch’essa bagnata e la giovane si disse che avrebbe fatto meglio a muoversi se non voleva prendersi una brutta infreddatura.
Scosse leggermente il capo, prima di camminare rapidamente. Raggiunto finalmente il riparo offerto dall’ingresso del museo, chiuse l’ombrello e rimase per qualche istante ad osservare lo spiazzo battuto dalla pioggia e dal vento, dicendosi che forse era un’immagine del genere che Rossini aveva avuto in mente quando aveva composto lo spettacolare temporale della
Cenerentola[2].
Lasciò cadere qualche sterlina nella cassa per le donazioni, poi, dopo aver lasciato cappotto e ombrello al guardaroba, si diresse con passo deciso alle sale dove erano custoditi i dipinti Preraffaelliti.
Prese ad osservarli uno ad uno, in cerca di ispirazione e di comprensione. Forse era un’idea sciocca, ma le sembrava che avrebbe potuto trovare una lettura sensata di Elsa von Brabant [3] tra i volti, alle volte inquietanti, delle donne dipinte da Gabriel Dante Rossetti, John Everett Millais e Edward Burne-Jones.
La giovane donna scosse leggermente il capo, mentre fissava la tela di Rossetti e la figura femminile dai capelli rossicci che teneva tra le mani un melograno, però in Proserpina non c’era quel candore che caratterizzava l’eroina wagneriana.
Ma Elsa era veramente candida e pura? Oppure era ben più contorta di quanto apparisse? Una donna che per debolezza – perché lei non riusciva a chiamarla semplice curiosità – sacrificava il proprio amore, non era forse ben differente da una fanciulla innocente, vittima delle infide parole di Ortrud? O almeno quella era la sua opinione, per quanto l’idea di un soprano al suo debutto nel ruolo potesse valere.
Si spostò dal quadro, muovendosi per la sala deserta, se non per la presenza di un uomo seduto di fronte ai dipinti appesi sulla parete opposta della sala.
La giovane donna gli lanciò un’occhiata distratta, per poi continuare ad osservare i dipinti. Mentre il tempo scorreva lento, notò quanto fosse faticoso trovare il volto di una giovane donna che rappresentasse qualcuno che prova la massima fiducia in un uomo apparsole in sogno e che poi non riesce a fidarsi di lui, una volta che questi è arrivato e l’ha salvata. Un comportamento irrazionale e contrario alla logica comune, si disse il soprano, ma la logica comune, naturalmente, non prevedeva che un cavaliere giungesse su una navicella guidata da un cigno, né che il suddetto cigno si rivelasse essere un bambino trasformato in animale da una donna dotata di poteri magici e dedita al male. Ma in fondo il comune buonsenso non prevedeva nemmeno che la magia esistesse.
D’altronde l’opera era ben poco logica e la giovane dovette dar ragione a Tristan che le aveva ripetuto diverse volte che lei, così speculativa e razionale, non era per nulla tagliata per essere una folle sul palcoscenico.
Il soprano scosse il capo, quasi con rabbia, sforzandosi di osservare con attenzione il volto misterioso della
Lady of Shalott [4], ma la sua mente non poteva far altro che soffermarsi sul pensiero di quello che era accaduto esattamente un anno prima.
Tutti i suoi sforzi per mantenersi impegnata, per pensare al suo prossimo debutto nel ruolo di Elsa, per concentrare la propria mente su qualcos’altro si stavano rivelando vani. Forse sarebbe dovuta restare a casa ed osservare il volto silenzioso e triste di sua madre, udire lo sfogliare frenetico del padre, sentire i discorsi futili della cognata e le parole che sarebbero uscite dalle labbra di Gawain.
O, peggio, vedere gli sguardi interrogativi di Rebecca, che avrebbe domandato perché lo zio se n’era andato per sempre l’anno precedente.
La giovane donna lanciò una rapida occhiata alla pioggia che picchiettava con insistenza contro una delle finestre che davano luce alla sala. Tristan avrebbe detto che non era un caso se quel giorno pioveva, ma egli era dotato di una fantasia di gran lunga più sviluppata della sua. E di una maggiore sensibilità. Probabilmente, si disse, dopo un attimo di riflessione, per quanto potesse sembrarle strano un pensiero del genere, il fratello era più lucido di quanto non avesse mai pensato. In fondo aveva sempre visto in lui un’anima poetica, nata forse nel secolo sbagliato, la cui forte sensibilità aveva finito per sommergerla.
Ma pensando al suo gesto finale, si era spesso interrogata sulla questione. Quanta lucidità ci voleva per fare quello che Tristan aveva fatto? Non aveva forse scientemente scelto la propria strada, come tutti gli altri esseri umani? Una scelta logica o illogica? Lei non poteva di certo stabilirlo, ma pur sempre una scelta meditata in solitudine. Era convinta infatti che ogni decisione, non importava quante circostanze esteriori vi fossero, era qualcosa che veniva meditato in solitudine, unicamente dalla propria mente – dal proprio cuore avrebbe detto Tristan –, nel momento in cui ci si muoveva lungo il cammino intellegibile della propria vita.
Da solo Tristan aveva scelto la sua strada, si disse, mentre si sedeva, forse per meglio osservare uno dei quadri che le stavano davanti, senza essere disturbata dalle luci, forse per ritrovare la calma necessaria per ritornare a concentrarsi su Elsa von Brabant.
Fu in quel momento che si accorse che l’uomo che aveva notato distrattamente, mentre ancora meditava sulla protagonista femminile di
Lohengrin, non si era mosso. Non riusciva a calcolare quanto tempo fosse trascorso da quando l’aveva intravisto, ma era sicuramente un tempo lungo per qualcuno intento a visitare un museo. Lei aveva speso diversi minuti davanti ad ogni dipinto nel tentativo di trovare una somiglianze, anche solo gestuale, tra quelle donne ed Elsa, ma quell’uomo non si era spostato di lì. Forse era semplicemente un qualche esperto di Storia dell’Arte che stava per scrivere un libro rivelatore sui Preraffaelliti, ma in tal caso non sarebbe stato più logico vederlo prendere appunti e non semplicemente rimanere immobile a fissare uno dei quadri di fronte a sé? Ma forse non voleva dire assolutamente nulla. in fondo non v’era nessuna legge che stabiliva che una persona intenta a fare una ricerca dovesse per forza di cose scrivere forsennatamente.
Distolse rapidamente lo sguardo, dandosi della sciocca. Qualsiasi fosse la ragione che portava quell’uomo ad essere lì, non era di certo affar suo. Eppure v’era qualcosa che la incuriosiva, forse semplicemente perché v’era qualcosa di insolito.
Oppure era perché aveva un che della figura del Wanderer [5].
Pensiero assurdo, si disse. Il Wanderer, perso nel mare di nebbia, volto verso l’infinito indefinibile e il Wanderer di Schubert, rivolto verso il proprio cammino, dove trova e cerca la morte, durante un viaggio nell’inverno dell’anima, erano figure della fantasia romantica e di certo lontane da qualsiasi forma di realismo.
La giovane donna trasse un lieve sospiro, prima di analizzare i quadri che le stavano di fronte, cercando di tornare a focalizzarsi su Elsa von Brabant. Era mai possibile che quella figura che reggeva un giglio avesse qualcosa a che fare con la giovane duchessa di Brabante? V’era in quell’atteggiamento dimesso, in quel volto malinconico chino verso il suolo, qualcosa del personaggio wagneriano, nel momento in cui, poco dopo aver ritrovato il fratello, muore d’amore? Sicuramente nell’immaginario comune Elsa era innocente e pura, ed il giglio era simbolo di purezza, ma, ad un’analisi più approfondita, il personaggio risultava veramente così innocente?
Dei passi improvvisi interruppero le meditazioni della giovane donna, facendole alzare di colpo. Si aspettava di vedere la sagoma dell’uomo, seduto poco distante da lei, allontanarsi dalla sala, invece egli era ancora lì. Fu per quello che non si accorse che qualcun altro era entrato e che si stava avvicinando a lei.
«Fortunatamente ti ho trovata, Ygraine. – disse una voce nota alla giovane donna che si alzò dal divanetto, trovandosi a guardare il volto bonario della sua pianista – Quando non ti ho vista arrivare per provare, mi sono preoccupata. Tuo fratello mi ha detto che ti avrei trovata qui.»
«Ti prego di perdonarmi, Jane. – rispose Ygraine, mentre si accorgeva che l’ansia di trovarsi qualcosa da fare quel giorno, le aveva fatto dimenticare che aveva già di che tenere la mente occupata – Credo di aver sbagliato a segnare l’ora nella mia agenda. Fortunatamente mancano ancora alcuni giorni al concerto.»
L’altra donna annuì, accettando le parole del giovane soprano, che, nel seguire la pianista all’esterno della sala, passò davanti all’ultimo quadro che aveva osservato, leggendone titolo e autore, ripromettendosi di informarsi maggiormente su quell’opera di Dante Gabriel Rossetti.
Il rumore prodotto dalle scarpe di Jane, la precedette all’esterno di quella lunga sala, colma di quadri enigmatici. Si voltò un istante, quando fu sulla soglia, e notò che l’uomo non si era mosso. In quel momento le parve che stesse osservando proprio il volto chino verso il basso dell’effigiata dell’ultimo dipinto che aveva preso in considerazione, ma con ogni probabilità era solo una sua impressione, si disse prima di uscire, lasciando che la solitudine rientrasse nella sala.
Soltanto il rumore della pioggia pareva riempire lo spazio ampio e semideserto. Il ticchettio delle gocce, portate dal vento furioso di quella giornata di fine novembre, si faceva sempre più insistente e la luce che penetrava dall’esterno sempre più scarsa e cupa.
Cupa come un viaggio solitario, come quella strada oscura che era la vita. In fondo, si disse l’uomo, che diversità c’era tra le tenebre e la vita – la sua vita, si corresse –, una vita che gli apparteneva ancora per un caso fortuito di cui avrebbe fatto volentieri a meno? Le motivazioni della sua sopravvivenza rimanevano un mistero. Non era tanto il perché fosse ancora in vita – per quello vi erano delle chiare risposte negli archivi del San Mungo –, quanto piuttosto per quale motivo la morte non l’avesse preso con sé nel momento in cui poteva farlo. Era una domanda che vorticava nella sua mente, sovrapponendosi ed intrecciandosi con ricordi e rimorsi impossibili da rimuovere anche solo per un istante dalla sua mente.
Una domanda alla quale non riusciva a trovare risposta, perché forse non ve n’era una.
Eppure questo non gli impediva di riflettere sulla questione. D’altronde sarebbe stato da sciocchi non farlo, anche se, alla fine, si tornava sempre al punto di partenza, a quella ricerca di una motivazione che era impossibile trovare. Forse avrebbe dovuto accontentarsi di sapere che era sopravvissuto, quando era stato certo di morire, quando aveva visto la fine, la meta ultima della vita di ogni uomo – una meta che era certo di raggiungere una volta finito il suo scopo – avvicinarsi inesorabilmente.
Invece non era stato quello il momento in cui il suo cammino aveva avuto fine, per quanto lui avesse potuto desiderarlo o darlo per scontato. O pensare che fosse veramente giunto. Percepirlo. Quasi sfiorarlo.
Sfiorarlo, appunto.
Non aveva ancora raggiunto il porto e non poteva pronosticare quando questo sarebbe successo.
In definitiva non stava a lui scegliere il tempo per il viaggio, o meglio, per la sua fine. Ma non si intraprendeva forse un viaggio sapendo che questo arriverà al termine? Non si viveva forse sapendo che si andrà incontro alla morte? E così come non si poteva scegliere l’inizio del viaggio, non era dato al viaggiatore di sceglierne la fine.
O per lo meno non era dato a lui sceglierne il tempo.
V’era chi lo faceva, questo era un dato di fatto, ma il suicidio era una strada che non aveva mai preso in considerazione. Nemmeno nei momenti più disperati aveva pensato di rivoltare un’arma o un veleno contro se stesso. Morire poteva forse poter dire trovare la pace, per quanto v’erano momenti in cui ne dubitava con tutto se stesso. Le sue colpe erano troppo gravose perché la morte potesse pacificarlo. Eppure la morte poteva veramente voler dire la fine di tutto. Del soffrire, del rimorso.
Di tutto.
Qualcuno avrebbe potuto vedere in questo un’ottima ragione per porre fine alla propria vita.
Eppure non aveva mai preso in considerazione la possibilità di suicidarsi.
Semplicemente era impensabile, si disse, mentre osservava con maggiore attenzione quella tela che lo rinviava a ricordi persi nel tempo, voler fuggire volutamente dalle proprie colpe. Perché, in fondo, quello poteva significare, per lui, il suicidio.
Ed era qualcosa che non poteva e voleva fare.
Qualcosa di inimmaginabile.
O forse, per una qualche motivazione, a lui stesso intellegibile, non voleva ancora morire, per quanto non vedesse davanti a sé nessuna ragione per poter vivere.
L’unica cosa di cui era assolutamente certo, si disse, mentre i suoi occhi si perdevano ad osservare il volto dell’effigiata, era che tre anni prima era stato sicuro che l’ultima cosa che avrebbe potuto vedere in vita sua, sarebbero stati gli occhi di Lily. Aveva creduto che l’ultimo suo gesto sarebbe stato contemplare il verde dello sguardo di Lily. Ed anche, in quel momento, portando i propri occhi neri sugli occhi della donna del quadro Babbano che stava di fronte a lui, incontrò il verde egli occhi di Lily, per quanto, ancora una volta, proprio com’era avvenuto nella Stamberga Strillante, quello sguardo non appartenesse realmente a lei.
Con gli occhi ancora incatenati a quelli malinconici e dolci del quadro, vedeva il cammino che gli rimaneva da percorrere, confondersi imperscrutabile nel verde stesso di quegli occhi.
O nella cupezza del cielo tempestoso di quel giorno di fine novembre.
Pioveva.
L’acqua sembrava non voler smettere di cadere su tutta l’Inghilterra. Bagnava ogni essere vivente che, in quella cupa notte di fine novembre, si avventurava all’esterno della sua abitazione; bagnava ogni casa di Mago o di Babbano. Ed il vento sibilava furibondo, facendo gemere gli alberi e sbattere qualche finestra la sciata, per chissà quale motivo, aperta.
La pioggia ticchettava impetuosa sulla cabina del telefono che dava ingresso al Ministero della Magia, su Diagon Alley, deserto e ricostruito rapidamente dopo la fine della guerra, su Westmister, sul Tamigi e sulla Torre di Londra. Le fini gocce cadevano anche contro le finestre buie e silenziose di una casa georgiana di Bedford Square, tenendo desta Ygraine Ainsworth.
Forse non era nemmeno la pioggia battente ad impedirle di dormire, né ben che meno il pensiero del recital che avrebbe affrontato il sei dicembre, né il prossimo debutto in Lohengrin, anche se le sarebbe piaciuto crederlo.
Forse le sarebbe bastato pensare alla musica, cantare una qualche aria – magari non una delle più drammatiche del suo repertorio –, ma di certo i vicini non avrebbero gradito e men che meno suo fratello che la ospitava per tutto il tempo delle prove e delle rappresentazioni.
In quel giorno le sembrava di star perdendo di vista la sua abituale ragionevolezza, ma forse era qualcosa di naturale. Anzi, sua madre le avrebbe detto che era comunque assolutamente ragionevole, quanto a suo padre… semplicemente non se ne sarebbe accorto, immerso com’era nei suoi studi. A volte le pareva strano che un uomo a tal punto sensibile nell’affrontare i problemi emotivi di qualche oscuro cavaliere arturiano, fosse così assolutamente incapace di accorgersi degli esseri reali che lo circondavano. Forse solo quel giorno si era allontanato dai suoi microfilm e dalle sue analisi di manoscritti di autori anonimi o sconosciuti ai più.
Ma quella non era una giornata come tutte le altre, o meglio, lo era stata fino all’anno precedente, quando, in una notte illuminata dalle stelle e da un quasi impercettibile falce di luna [6], Tristan aveva rivolto contro di sé un coltello trovato in cucina. Forse era stato proprio a quell’ora che il fratello aveva deciso, nella solitudine del suo piccolo appartamento, di uccidersi. O meglio, si corresse Ygraine, rigirandosi nel letto, di compire l’atto decisivo di una scelta che doveva aver già preso da tempo.
V’era stato in effetti nel comportamento di Tristan qualcosa che avrebbe potuto far pensare che stesse dando il suo addio alla vita. Col senno di poi, a Ygraine era apparso chiaro.
Qualcosa di inutile.
Lo stato di prostrazione psicologica in cui versava Tristan era qualcosa di cui era necessario accorgersi subito, non quando i fatti si erano già prodotti.
Quei pensieri che la stavano conducendo verso strade che non voleva affrontare, furono interrotti dall’aprirsi furtivo della porta della sua stanza e dai successivi passetti che sfiorarono il pavimento.
«Rebecca, dovresti essere a letto da diverso tempo, ormai. Domani devi andare a scuola.» mormorò Ygraine, mettendosi seduta, mentre la nipote, la cui figurina era appena visibile grazie alla luce dei lampioni che penetrava tra i tendaggi, si avvicinava a lei.
«La pioggia ed il vento mi impediscono di dormire, zia, – biascicò la bambina, mettendosi a sedere sul materasso – e papà e mamma dormono.»
«E cosa ti lasciava pensare che io fossi sveglia?» domandò Ygraine, mentre la pioggia sembrava aumentare di intensità.
«Oh… zia, anche se dormivi, non mi avresti detto niente. Invece papà si sarebbe arrabbiato.» mormorò Rebecca, sgusciando sotto le coperte.
«Gawain vuole che ti comporti come una bambina grande.» affermò la giovane donna, dicendosi che era insito nel fratello irritarsi per qualcosa che sconvolgeva anche minimamente il suo quieto vivere e le sue abitudini.
Ricordava che una volta sua madre aveva detto che Gawain non sarebbe mai stato un artista ed Ygraine aveva dato ragione alla donna, anche se la mamma non aveva mai pensato che lei potesse calcare il palcoscenico.
«Ma io sono grande. – protestò la bambina – Ho otto anni.»
«Hai ragione, Rebecca, sei grande. – bisbigliò Ygraine, scompigliando i capelli castani della nipote – Ma la prossima volta puoi pensare a qualche storia divertente. Magari ti addormenti, ma se non riesci puoi sempre venire qui.»
«Però tu non sei sempre qui, zia. – disse la bambina, scuotendo il capo contrariata – E a me piacerebbe tanto venire a sentirti cantare sempre e non vedo l’ora che sia il giorno del tuo concerto. Nonna mi ha comprato un biglietto. E poi c’è quell’opera, quella che hai già cantato, quando io ero tanto piccola… e quella nuova… Lonhengrin, o qualcosa del genere… ha una bella storia, zia?»
«Io la trovo bella, Rebecca. Forse ti piacerà. Lohengrin è un cavaliere...»
«Allora ci saranno dei duelli? – domandò la bambina, interessata – E anche una bella principessa che si innamora di lui?»
«Ti dovrai accontentare di una duchessa – rispose Ygraine, cercando di dare un tono leggero alle sue parole – e ci sarà anche un duello, nel primo atto.»
«Ma finisce bene o male, zia?» la incalzò Rebecca, impedendole di aggiungere qualcosa d’altro.
«Male.» disse soltanto la giovane donna.
«Oh, tutte le opere che hai cantato finiscono che qualcuno muore. – commentò la bambina – Ed in questa cosa succede?»
«La storia è complessa, Rebecca. – disse Ygraine, sorridendo al commento della nipote – Ti prometto che domani te la racconterò.»
«E mi farai sentire anche un pezzo?» domandò la piccola, trattenendo a stento uno sbadiglio.
«Certamente, Rebecca. Ma ora dormi.»
La bambina annuì, augurando, bofonchiando, la buona notte alla zia.
«Buona notte, Rebecca.» rispose di rimando la giovane donna.
Dopo qualche minuto il respiro regolare della bambina addormentata fu udibile tra il ticchettio della pioggia. Ygraine, dal canto suo, rimase sveglia, chiedendosi se quella notte avrebbe mai avuto fine e, mentre la domanda le si presentava alla mente, le parve di udire risuonare le note di un organetto. Corse alla finestra, ma la piazza illuminata dalle luci elettriche era vuota. Eppure la musica risuonava ancora nell’aria. Ed ad un certo punto intravide un vecchio suonatore di organetto, trascinarsi per strada. Immagine bizzarra, si disse, in una sera come quella. Un pover’uomo, aggiunse, tornando a coricarsi, cullata dalla tiritera malinconica del vecchio, bagnato dalla pioggia, le cui gocce cadevano su tutta Londra, su tutta l’Inghilterra, bagnando abitazioni, giardini, alberi e piazze. Cadeva violentemente tra i sibili del vento su ogni casolare, su ogni villaggio e su ogni quartiere.
E pioveva sul grigiume di Spinner’s End, che nemmeno l’acqua poteva lavare. Tutto pareva dormire, mentre ogni goccia picchiettava contro finestre, tetti e strade. Nessuno si avventurava all’esterno, ma v’era chi vegliava. Una madre sfinita da una giornata di lavoro che tentava di quietare il figlio piangente. Un senzatetto nascosto dietro una catapecchia semiabbandonata.
Un uomo solitario con un libro aperto davanti.
Un libro le cui pagine venivano sfogliate lentamente, mentre i minuti passavano inesorabili e lenti, senza che gli occhi neri del lettore sembrassero dare segno di affaticamento, nemmeno quando la notte aveva ormai superato la sua metà.
Il sonno sarebbe presto o tardi arrivato, com’era naturale che fosse, si disse Severus Piton, ma non sarebbe mai stata una buona notte.
Ma da quando le sue notti erano buone?
Domanda retorica e tutt’altro che intelligente.
All’esterno la pioggia continuava a ticchettare persistente e aritmica, portata dal vento, un suono che aggiungeva un corollario ad una notte come tante altre, una notte che sembrava l’esatta ripetizione di tutta una lunga serie di notti che aveva vissuto da che si era ritrovato vivo.
V’era qualcosa di tremendamente ironico nel fatto che, in quel momento, in cui si trovava ad essere impensabilmente libero da ogni vincolo, si sentiva quanto mai vincolato. Ed era proprio nelle ore notturne che il vincolo invisibile dei ricordi e del passato sembrava afferrarlo con maggior forza, impedendogli quasi di concentrarsi su quanto stava leggendo.
Mentre le gocce di pioggia vorticavano scendendo dal cielo, imperturbabili, bagnando tutto senza distinzioni, l’uomo si rendeva pienamente conto che il suo passato l’avrebbe afferrato con sempre maggior forza ogni giorno che passava, perché, in quei giorni, che un altro avrebbe potuto definire di libertà, aveva un tempo pressoché illimitato per riflettere, per rivivere ogni momento.
Forse era per quello che la morte l’aveva rifuggito, rigettato.
Poteva essere che il sinistro mietitore [7] fosse dotato di un macabro senso dell’umorismo ed amasse giocare con la vita delle persone, evitando di prendere con sé chi pareva desiderarlo.
O chi era certo di essere arrivato alla fine.
Ed egli aveva avuto in effetti l’idea di aver riconosciuto la meta, nella Stamberga Strillante. Era sembrato così chiaro. La morte era apparsa così vicina che avrebbe potuto toccarla e vederla, qualsiasi fosse la sua immagine.
Era stato certo di essere arrivato alla fine e si era preparato a non esistere più – o ad esistere in un altro luogo, ammesso che questo esistesse –, ad esalare il suo ultimo respiro, a veder giungere a compimento il suo viaggio solitario.
Invece la vita - la sua buona sorta avrebbe potuto dire qualche sprovveduto – aveva avuto un’idea diversa.
Ed ora viveva.
Respirava come ogni altro essere vivente, vedeva i giorni trascorrere lentamente, uno dopo l’altro come accadeva ad ogni uomo, osservava il cammino davanti a sé srotolarsi ora dopo ora e la meta finale avvicinarsi.
E si voltava indietro – più di quanto non guardasse avanti, ammise – alla parte del viaggio già percorsa – lunga o corta, non poteva saperlo – colma di scelte e decisioni, di responsabilità enormi che gli gravavano sulle spalle. Un tratto di strada che era sempre nella sua mente, pensiero indelebile nella veglia come nel sonno.
Ed era presente anche in quel momento in cui il vento scuoteva ogni cosa e tutto si bagnava di un’acqua che in una qualche leggenda avrebbe potuto avere un effetto purificatore, ma v’erano macchie che nemmeno l’acqua più pura poteva cancellare.
Severus si alzò, lasciando il libro aperto, e si avvicinò alla finestra su cui l’acqua, cadendo, segnava dei sentieri sul vetro.
L’inverno stava arrivando.
Eppure questo non voleva dire nulla, se non a livello naturale.
In fondo era da tempo che la sua vita era in inverno, che viaggiava nell’inverno profondo costituito dalla sua vita e dalle sue scelte. E quell’inverno, colmo di rami rinsecchiti e spezzati come le sue colpe, si protraeva da ben prima che Nagini lo mordesse, ben prima che le sue mani si macchiassero del sangue di Silente, da ben prima che Lily morisse, forse da ben prima che il Marchio Nero fosse impresso sul suo avambraccio sinistro.
Ed era in quell’inverno dell’anima che, perduto lo scopo che, fino al momento in cui aveva creduto di morire, lo aveva in un certo senso guidato, avrebbe dovuto trovare una strada, un cammino solitario, ma pur sempre un cammino, di cui però non riusciva ad intravedere la linea davanti a sé.
Eppure un strada alla fine avrebbe scelto.
Anche se non gli era dato conoscerne il momento, se non quando avrebbe compiuto una scelta che l’avrebbe fatto svoltare per un sentiero accidentato.
Rimase ancora per qualche istante immobile accanto alla finestra, ombra scura, nella cupezza di quella tempestosa notte di novembre, poi si staccò dai vetri sferzati dall’acqua che cadeva dal cielo.
Mentre tornava al suo libro in attesa che il sonno lo cogliesse, la pioggia si affievolì leggermente ed un breve ed effimero raggio di luna si fece strada tra le nubi. Illuminò per qualche istante il suo percorso, per essere inghiottito poco dopo dalle nuvole nere che lottavano tra loro nel cielo oscuro.
[1] Wilhelm Müller, Gute Nacht (buona notte), seconda strofa versi 1-4.
[2] Nell’opera di Gioacchino Rossini, La Cenerentola, è presente una scena di temporale affidata all’orchestra che imita il rumore della pioggia ed il soffiare del vento.
[3] Protagonista femminile di Lohengrin di Richard Wagner. Duchessa di Brabante, dopo la morte del padre, è accusata di fratricidio, essendo il fratello, Gottfried, scomparso in circostanze misteriose. L’imperatore Heinrich (si tratta di Enrico l’Uccellatore) si trova nel Brabante per invitarne gli abitanti ad appoggiarlo nella sua campagna contro gli ungari. Il conte Friedrich von Telramund, tutore di Elsa e Gottfried, spinto dalla moglie Ortrud, accusa Elsa di fratricidio e di complottare per salire al soglio insieme ad un misterioso amante. La fanciulla chiamata a difendersi, evoca un sogno nel quale un cavaliere sarebbe giunto a difenderla dall’ingiusta accusa e domanda all’imperatore di invocare il giudizio di Dio, ovvero di indire un duello. Colui che ne uscirà vincitore sarà colui che avrà effettivamente difeso la verità. Friedrich stesso si offre per difendere la propria opinione, quindi l’accusa nei confronti di Elsa, mentre l’araldo di Heinrich, chiama un difensore per la fanciulla. Nessuno dei presenti si offre ed ormai ogni speranza è svanita per la giovane duchessa, quando, al terzo richiamo, un cavaliere si avvicina, su una barca condotta da un cigno (la scena si svolge nelle vicinanze della Schelda), e si dice pronto a difendere Elsa. Il cavaliere promette ad Elsa, che ha riconosciuto in lui l’uomo apparsole in sogno, il suo amore e di farla sua sposa, a patto che lei non gli chieda mai chi sia e da dove venga, perché in tal caso sarà costretto a lasciarla. La giovane promette. Poco dopo ha inizio il duello ed il misterioso cavaliere ne esce vincitore e risparmia la vita a Telramund.
La notte successiva al duello, Friedrich e Ortrud siedono insieme. L’uomo si scaglia contro la moglie, accusandola di essere lei ad averlo spinto ad accusare l’innocente Elsa e ad essere, quindi, adesso ricoperto di onta. Ortrud ribatte che il cavaliere ha vinto soltanto grazie alla sua magia e che, se il suo nome verrà rivelato, allora il potere che gli ha permesso di vincere, grazie all’inganno, sarà distrutto. Friedrich rimane soggiogato dalle parole della moglie, la quale gli promette di instillare il dubbio nella mente di Elsa. Ed è proprio la ragazza che esce poco dopo, credendo al finto pentimento che Ortrud le mostra, anche se, di fronte alle abili parole della donna, la giovane sembra difendere la purezza e assolutezza del suo amore, mostrando disinteresse per l’identità del futuro sposo. Il giorno dopo, mentre Elsa è guidata in processione alla cattedrale per sposarsi, Friedrich e Ortrud continuano ad insinuare in lei il dubbio, insistendo sull’importanza del nome e sulla finta purezza di intenti del cavaliere. Quando il cavaliere compare, insieme ad Heinrich, Elsa si rifugia tra le sue braccia e l’uomo è preoccupato per il suo spavento.
Dopo che il corteo nuziale ha accompagnato Elsa ed il suo sposo nella camera nuziale, i due novelli sposi rimangono soli. Elsa, divorata ormai dal dubbio, pressa il cavaliere perché le riveli qualcosa di sé, senza porre però ancora la domanda proibita. L’uomo le risponde con una mezza verità, dicendole: «Il tuo amore dev'essere la ricompensa di ciò che rinunciai per te. L'unica cosa che valga il mio sacrificio la vedo nel tuo amore. Non provengo dall'oscurità ma dalla luce e dallo splendore!». Queste parole rendono ancora più confusa Elsa e la spingono sempre di più verso la domanda fatale, nonostante il cavaliere cerchi in tutti i modi di dimostrarle che la conoscenza del nome non è fondamentale, che egli, appena l’ha vista, pur senza conoscerne le origini, ha avuto fiducia in lei, comprendendone l’innocenza, senza porre domande. Ma alla fine Elsa non riesce più a tacere e chiede al marito chi sia e da dove venga. Appena pronunciata la domanda, Friedrich von Telramund fa irruzione nella stanza per uccidere il cavaliere, ma egli è più rapido ed uccide il conte.
All’alba tutto il popolo di Brabante è riunito nei pressi della Schelda ed il cavaliere rivela alla fine il suo nome e la sua origine. Egli è Lohengrin, figlio di Parsifal, cavaliere del Graal, venuto in aiuto ad Elsa perché è suo potere difendere l’innocente ovunque questi si trovi. Domandandogli il proprio nome, Elsa lo obbliga a ritornare a Monsalvato, dove è custodito il Graal, perché tale è il destino che lo attende (Lohengrin è richiamato dal Graal stesso a Monsalvato). Il cigno ricompare a prendere Lohengrin ed allora il cavaliere rivela, come ultimo atto, che l’animale altri non è che Gottfried, trasformato in cigno da Ortrud. Magicamente il cigno ritorna il bambino che il cavaliere del Graal affida ad Elsa, donandole il suo anello, il suo corno e la sua spada perché li possa passare a Gottfried quando sarà l’ora. Il bambino sarebbe dovuto rimanere per un anno presso i cavalieri del Graal in modo da recuperare pienamente le proprie forze ed accrescere la propria saggezza, ma è ormai impossibile. Con un ultimo disperato addio a Elsa, Lohengrin abbandona il Brabante. La giovane, sconvolta, invoca lo sposo per poi cadere a terra, morta.
[4] Tela di John William Waterhouse. Tutti i dipinti citati in precedenza e che saranno citati successivamente fanno effettivamente parte delle collezioni della Tate Britain, come ho verificato sul sito della medesima. L’unica libertà letteraria che mi sono presa, riguarda la loro effettiva esposizione in sala, in quanto l’esposizione viene effettuata a rotazione, quindi non posso sapere quali quadri si trovavano effettivamente esposti nella galleria nel novembre del 2001. La descrizione del museo è il più fedele possibile alla realtà, anche se può benissimo essere che i miei ricordi mi ingannino, soprattutto sulla presenza delle finestre in quella data sala. Se questo dovesse risultare errato, si tratterebbe allora di una nuova licenza poetica.
[5] Il termine Wanderer è stato volutamente mantenuto in tedesco, perché è parola in parte intraducibile in italiano. Letteralmente Wanderer significava Viaggiatore, ma la parola Wanderer, usata nel romanticismo e tardo-romanticismo tedesco, assume i connotati di un Viaggio compiuto nell’anima, piuttosto che di un viaggio reale. Vi è inoltre nel Wanderer romantico, una sorta di impossibilità alla quiete, al non viaggiare. Il Wanderer è quasi un essere destinato ad affrontare il Viaggio. È inoltre un Wanderer il protagonista del ciclo di Lieder che ha dato ispirazione al racconto.
[6] Le fasi lunari per l’anno 2000 sono dedotte dal calendario perpetuo. Allo stesso modo sono stati rivelati giorni della settimana e fasi lunari dell’anno 2001.
[7] La morte nella tradizione inglese è rappresentata simbolicamente tramite figure maschili. Per questo ho deciso di lasciare, in questa occasione, al maschile la personificazione del Grim Reaper, senza traslarlo al femminile come avviene in italiano dove si riferisce alla morte come alla mietitrice.Edited by Alaide - 8/11/2022, 08:26